L’importanza della postura nella pratica meditativa

In molti testi buddhisti troviamo la metafora della scimmia che balza di ramo in ramo, in modo ripetitivo e distratto, per indicare la nostra mente, che si muove in modo veloce e in uno stato di continua distrazione, saltando da un pensiero all’altro. La nostra mente, come una scimmia in continuo spostamento, rimane sospesa tra ricordi del passato, speranze nel futuro, paure, emozioni già vissute. Una mente così instabile e distratta non può che creare ansie, aspettative, melanconie. In uno stato tra passato e futuro si rimane disattenti, non mentalmente presenti. Il qui e ora non viene esperito in modo consapevole, essendo la nostra mente immersa in una giungla di pensieri. Occorre dunque calmare la mente.

L’asana samadhi

Per meditare è assolutamente importante scegliere la postura corretta. L’asana giusta per la meditazione è l’asana samadhi. Samadhi è lo stato della “concentrazione mentale”. Letteralmente la parola “samadhi” significa “mettere insieme” e fa riferimento all’unione del meditante con il tutto. Dal punto di vista della Mindfulness, samadhi è una condizione di equilibrio psicofisica in cui vi è attenzione e concentrazione. L’asana samadhi è dunque lo stato di unione che si ottiene a mezzo della postura corporea e in cui il corpo diviene strumento della pratica.

La postura meditativa seduta ideale è la posizione del loto; tuttavia, a seconda della nostra condizione fisica, si può anche optare per la posizione del semi-loto o a gambe incrociate. Ciò che è davvero rilevante è mantenere l’immobilità della posizione, cioè è essenziale adottare una postura rimanendo in uno stato immoto, entrando in tutte le sensazioni fisiche, anche in quella del dolore che si avverte in varie parti del corpo. Se il dolore viene a visitarci consideriamolo – come insegna la Mindfulness Immaginale – uno spirito, una divinità che vuole manifestarsi: come tale il dolore deve essere accolto e non rifiutato.

Oltre all’immobilità, da mantenere per tutta la durata della meditazione, un altro elemento indispensabile nell’āsana samadhi è conservare la colonna eretta in un atteggiamento nobile e dignitoso. Mantenendo la schiena ben diritta lo stomaco può secernere sostanze indispensabili alla salute del corpo.

L’immobilità è già di per se stessa meditazione, poiché proprio tramite la stabilità corporea possiamo avvertire una serie di disagi e disturbi, come per esempio un dolore al ginocchio, o alla spalla. Questi disagi non sono negativi per il processo meditativo, bensì rappresentano il carburante stesso della meditazione, la condizione essenziale per meditare negli eremi della foresta. I monaci, infatti, insegnano che i fastidi sono un momento altamente benedetto, poiché essi sono espressione dei nostri attaccamenti.

Verso il chitta samadhi

Il disturbo ci permette di essere consapevoli degli attaccamenti e quando siamo consapevoli di un attaccamento possiamo scioglierlo. Per scioglierlo entriamo nel disagio, sentiamo dove si manifesta nel corpo e ingigantiamolo. Il disagio ci permette di uscire dalla gabbia dell’Io, di lasciar andare l’attaccamento al senso dell’individualità separata.

L’asana samadhi e l’immobilità prolungata portano a uno stato in cui il corpo perde i suoi confini. Ciò è la precondizione per l’ottenimento del chitta samadhi, il samadhi della coscienza. La pratica costante dell’asana samadhi conduce quindi alla “pienezza mentale”, alla “presenza mentale” e a un piacere immoto. Attraverso la meditazione coltiviamo la piena presenza del momento, del qui e ora, come insegna la Mindfulness Immaginale (si veda il relativo libro cliccando qui).

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