
Il Dalai Lama, il prossimo 6 luglio compirà 90 anni. Da pochi mesi, è uscita una nuova autobiografia (che completa quella più “spirituale” pubblicata anni fa) in cui ripercorre la sua lunga, intensa, difficile e luminosa esistenza. Il libro, dal titolo “Una Voce per chi Non Ha Voce” (traduzione di Francesca Pe’), edito da HarperCollins, è un vero scrigno di saggezza.
In particolare, al centro del volume vi sono il Tibet e il popolo tibetano, la cui storia recente è inevitabilmente intrecciata a quella del monaco buddhista Tenzin Gyatso, XIV e attuale Dalai Lama.
La narrazione prende avvio da quel fatidico 17 marzo 1959, quando, in una notte gelida e buia, indossati gli abiti di un “chuba” (l’abito tradizionale usato dai laici), il giovane Dalai Lama uscì dal palazzo di Norbulingka a Lhasa, per sfuggire alla repressione cinese. Venne accolto dalla vicina India come un rifugiato, e da allora, non è mai riuscito a ritornare nella sua terra d’origine. Tenzin Gyatso vive in esilio da oltre 60 anni. Come lui, altre migliaia di tibetani, monaci e laici, sono fuggiti dal “Paese delle nevi” a causa della brutale invasione del Tibet, nel 1950, da parte della Cina di Mao.
Come viene spiegato in modo dettagliato nel testo, l’esilio forzato è stato l’esito dell’impossibilità di proteggere il Tibet, il suo popolo e una cultura millenaria attraverso un reale, concreto accordo con Pechino. Infatti, il XIV Dalai Lama, a seguito dell’invasione cinese della sua terra, ha cercato in più occasioni di dialogare con la dirigenza del Partito comunista al potere, persino con lo stesso Mao, ma senza esiti positivi.
Tenzin Gyatso, in questa autobiografia, approfondisce le travagliate vicende storiche e geopolitiche che hanno scandito il Tibet nel XX e XXI secolo.
Su tutto, ricorda che si avvicina ai 90 anni e che:
“La questione tibetana non è ancora stata risolta… la mia terra natia è ancora nella morsa del dominio repressivo della Cina. I tibetani rimasti in patria continuano a essere privati della loro dignità di popolo e della libertà di vivere la vita secondo i propri desideri e la propria cultura come invece accadeva da più di un millennio prima del 1950. Poiché oggi, qualsiasi espressione dell’identità tibetana è vista come una minaccia dai nuovi dominatori, c’è il rischio che in nome della stabilità e dell’integrità territoriale si facciano dei tentativi di cancellare la nostra civiltà”.
“E poiché in Tibet non c’è libertà di parola, fin dall’inizio del mio esilio, nel 1959, è toccato soprattutto a me il compito di essere la voce di chi non ha voce”.

Come si evince dal racconto del Dalai Lama, i tibetani hanno vissuto per millenni sull’altopiano del Tibet. Sono stati loro per secoli i custodi di quella terra così meravigliosa e, adesso, sempre più fragile a causa della politica di occupazione/colonizzazione dei cinesi, che prevede anche lo sfruttamento delle risorse naturali e minerarie del Paese.
A essere minacciati non sono solo una specifica lingua, una cultura unica e un’incredibile eredità spirituale, ma anche i delicati equilibri dell’ecosistema di quell’angolo dell’Himalaya.

Proteggere il Tibet significa arricchire culturalmente l’intera umanità
Il Dalai Lama sottolinea anche un importante aspetto, da ben evidenziare. La cultura tibetana è fondata sulla forza della compassione e sul principio dell’interdipendenza di tutte le cose. Per questo proteggere, tutelare e valorizzare il Tibet significherebbe un grande arricchimento per l’intera umanità, poiché si potrebbero far conoscere e diffondere lo stile di vita etico dei tibetani. Uno stile di vita che può portare gioia, rispetto e umanità per tutti.


Il XIV Dalai Lama, nella sua intensa narrazione, mette al centro un altro aspetto, ovvero che è fondamentale “non perdere mai di vista la nostra comune umanità condivisa”. Per questo ha sempre raccomandato i suoi connazionali a guardarsi dall’odio verso i cinesi. “L’odio genera solo altro odio”, affermò il Buddha.
Nutrire compassione e non dimenticare mai la nostra umanità condivisa sono insegnamenti che possono andare oltre i confini e la cultura tibetana, per essere interiorizzati e appresi anche da altri popoli.
“Una Voce per chi Non Ha Voce” non è quindi una semplice autobiografia, ma molto di più. È un libro di storia, ma anche un compendio dei principi buddhisti che possono essere applicati nella vita di tutti i giorni, da ciascuno di noi, al fine di non dimenticare mai “la nostra comune umanità condivisa”.
a cura di Silvia C. Turrin