Chi pratica yoga e meditazione conosce, o dovrebbe conoscere bene, il concetto di Ahimsa. Si tratta di un principio dello yoga classico, già presente negli antichi Veda. È incluso negli Yoga Sûtra, un’opera che si pensa risalga al 200 a.C., nella quale sono spiegate le fasi della pratica yoga per raggiungere lo stadio più alto, il Samadhi. Patanjali, che si ritiene l’autore degli Yoga Sûtra, nel secondo capitolo di questo testo illustra il cosiddetto ottuplice sentiero, chiamato anche Ashtanga Yoga. Tale sentiero è strutturato in una serie di stadi. Il primo di essi è fondamentale e sintetizza le regole per la condotta morale indispensabile per la pratica yoga e, quindi, per il raggiungimento dello stadio più elevato.
Per raggiungere il Samâdhi occorre prima di tutto purificare la propria esistenza seguendo determinate regole etiche, al fine di evitare confusione in se stessi e nel mondo. In queste regole basilari, chiamate Yama, troviamo l’Ahimsa. È un termine sanscrito che significa “assenza di volontà di nuocere” a chiunque e in qualunque modo. L’Ahimsa è il pilastro della non-violenza di Gandhi. Mettere in pratica l’Ahimsa vuol dire rispettare la vita e amare incondizionatamente. Se non viene praticata non si può accedere alla pace interiore e quindi sarà impossibile intraprendere in modo serio e profondo l’ottuplice sentiero.
Il principio e la regola dell’Ahimsa porta il praticante di yoga ad astenersi nel causare la sofferenza (fisica e morale) agli altri, e anche a se stesso. Quello tracciato da Patanjali è un cammino d’amore, che si nutre d’amore. Chi pratica yoga agisce in favore dell’amore, della non-violenza, sia tramite l’azione, sia tramite le parole e il pensiero. Per sviluppare questa qualità è necessario meditare proprio sull’amore, sulla compassione, sulla gentilezza amorevole e sull’equanimità. La pratica meditativa è un ponte verso l’amore per se stessi e gli altri e rappresenta un cammino intrinseco allo yoga.